Trieste, 8 ottobre 2013. Fallisce la libreria Fenice di Trieste. Decine di migliaia di volumi (per lo più libracci e fondi di magazzino) sono destinati al macero o a essere venduti in stock a un prezzo stracciato. Dispiace, certo, ma non ha senso farsi prendere dal feticismo per la carta stampata. A parte il caso di opere rare, si tratta di libri tirati in decine di migliaia di copie. Il libro va al di là delle innumerevoli copie che se ne possono trarre. Quindi bene scandalizzarsi come ci sì può scandalizzare per qualsiasi altro bene ancora utilizzabile destinato alla pattumiera, ma è un po’ ridicolo fare l’apologia della copia stampata come se fosse vittima di un rogo censorio.
Si sono lette molte frasi retoriche su questo argomento. C’è chi invoca la cultura come se la copia stampata fosse sinonimo di cultura. La cultura sta dietro a quello che c’è scritto e può derivare da quello che c’è scritto, ma la copia stampata non è sinonimo di cultura. La copia stampata è solo un supporto tra i tanti che esistono. Nei molti commenti comparsi mi è parso di ritrovare lo stesso spirito di quelli che si accaniscono per l’esposizione del crocifisso nei luoghi pubblici. Come se la loro religiosità potesse esistere solamente in quanto idolatria.
Di copie di libri e quotidiani ne finiscono al macero milioni tutti i giorni. Uno spreco, certo, ma non un attentato alla cultura. Attentato alla cultura è non fermarsi a ragionare. Attentato alla cultura è il pensiero unico, il perbenismo di chi si scandalizza per un evento eclatante e chiude gli occhi nella quotidianità.
Invece 6mila indignati benpensanti aderiscono a una pagina Facebook per salvare i libri dal macero chiedendo che se ne faccia carico l’amministrazione pubblica. E io mi domando: invece che appellarsi sempre all’intervento pubblico (per poi lamentarsi se l’amministrazione non risponde) perché “i magnifici 6mila” non si autotassano per acquistarli in blocco questi benedetti libri e regalarli a chi pare a loro?
Foto di Julia Freeman-Woolpert – sxc.hu